Influencer e neurobranding

Influencer e neurobranding

Viviamo l’era dell’influenza, un’era che vede preponderante l’impatto generato da figure e realtà esterne, capaci però di aver guadagnato una posizione di riferimento all’interno di un network.

Un cambio radicale dello status quo che aveva caratterizzato comunicazione e marketing per decenni, portando le persone a validare prima la credibilità e l’autorevolezza del soggetto più che dell’oggetto.

Merito o colpa dei media digitali, social network su tutti, e del ribaltamento comunicativo che hanno generato, rendendo ognuno di noi potenzialmente un creator prima e, addirittura, una marca poi (personal branding). Elementi che hanno spostato il focus sulle persone e sul modo di comunicare che è a loro più consono, il dialogo, a discapito, invece, delle comunicazioni commerciali messe in atto dai brand.

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Quegli stessi brand che sono stati inizialmente storditi da tutto questo, incapaci di ripensare il loro approccio al cliente, o meglio, agli utenti, persone con cui relazionarsi più che acquirenti compulsivi. Una lezione che hanno imparato sulla propria pelle e che li ha costretti negli anni a lavorare loro stessi sulla capacità di generare influenza e divenire così riferimenti di valore, e impatto, per gli utenti.

Un approccio che significa parlare, raccontarsi, prendere decisioni, spesso difficili, acquisendo un ruolo nella vita sociale che va ben oltre quella del marchio, almeno nell’accezione più classica del termine.

Corporate social responsibility, BCorp, employee advocacy sono solo alcuni dei temi che ne derivano, dimostrando come il successo del brand nell’era dell’influenza non passi esclusivamente dal prodotto, ma soprattutto dal DNA dell’azienda, dal suo purpose.

Il report Influencer by the numbers conferma, dati alla mano, questo impatto. Più di un terzo, il 37% degli utenti che interagiscono con i contenuti degli influencer afferma che quando questi citano un marchio, la loro fiducia in esso aumenta. La fiducia nei diversi tipi di influencer può invece variare a seconda di come i follower li valutano onesti e credibili:

·     la Gen Z e i giovani millennial si fidano più dei post degli influencer che dei brand stessi (44,3%);

·     quasi la metà (42%) degli intervistati tra i 18 e i 34 anni riferisce di provare un prodotto consigliato da un influencer e più di un quarto (26%) dichiara di aver effettivamente eseguito un acquisto sulla base di una raccomandazione;

·     gli utenti di età compresa tra i 18 e 24 anni hanno anche maggiori probabilità di realizzare un acquisto sulla base di una raccomandazione di un influencer (48%) rispetto a quelli tra i 25-34 anni (26%).

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Un impatto ancora più rilevante in una customer journey evoluta, sempre più liquida in cui l’utente naviga senza una direzione univoca. Un ruolo, quello degli influencer, che è fondamentale nell’awareness stage, nel dare cioè una conoscenza più qualitativa di marca e di prodotto.

Un’influenza, quella degli opinion leader, che va ad amplificare quella generata dagli stimoli e dalle percezioni che la mente produce dietro particolari sollecitazioni.

L’obiettivo è condizionare il processo decisionale di acquisto controllando i fattori emotivi e irrazionali che sono alla base degli impulsi umani.

In poche parole, massimizzare, sfruttando gli influencer come driver, le tecniche del neuromarketing, lavorando in particolare sulla connotazione emozionale dei contenuti/messaggi.

Seppur in gran parte sia la razionalità a farci prendere una decisione, ci sono casi, acquisti su tutti, che risentono di impulsi emozionali, irrazionali, spontanei e momentanei. Per questo nella costruzione di un contenuto, sfruttare i trigger emozionali permette di dar maggiore attrattiva e impatto agli stessi. Non si tratta di gusto personale, ma della capacità del cervello di processare più facilmente tali input, poiché non richiedono processi cognitivi.

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Un’influenza emotiva che fa leva sul potenziale narrativo delle storie, rendendone immediata l’assimilazione e più forte l’eco nella memoria. Quelle storie che sono parte vitale delle strategie di contenuto e comunicazione degli influencer e che divengono veicolo d’influenza. Come? Per esempio, con il mirroring, una tecnica che mira a riprodurre la comunicazione sia verbale, sia non verbale, di chi ci legge/ascolta, così da creare un rapporto di sintonia e di empatia. Qui a far la differenza è la spontaneità e l’affinità che gli influencer hanno, spingendo così gli utenti a emulare lo schema narrativo, generando di fatto un senso di vicinanza e similarità.

L’approccio storytelling dei creator spinge un altro fenomeno, quello del neural coupling che porta i follower a interpretare un contenuto da una prospettiva personale, producendo immedesimazione e quindi convincimento.

Impulsi emozionali che vengono qui arricchiti da elementi cardine degli influencer stessi: umanità, credibilità, spontaneità, massimizzandone ancora di più influenza e performance. Un match, quello tra influencer marketing e neuroscienze che può diventare decisivo per i brand, seppur nella consapevolezza della necessità di focalizzarsi su elementi significativi come l’affinità tra creator e audience dell’azienda, indagabile solo con un approccio data-driven, basato su dati e insight e sulla capacità di creare contenuti in grado di smuovere l’emotività degli utenti.

Analisi quantitative e qualitative sono fondamentali perché, se nella quasi totalità delle attività di comunicazione la persona giusta al posto giusto diventa un elemento decisivo, nelle campagne di influencer marketing sono cruciali.

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Questo articolo è un estratto del box di approfondimento di Matteo Pogliani , founder di ONIM | Osservatorio Nazionale sull’Influencer Marketing, tratto dal mio libro dal titolo: Neurobranding edito da Hoepli.

Matteo Pogliani

Head of Digital | Helping brands to tell stories, create conversations and engagement with digital media and influencers

3 anni

Uno dei contributi di cui sono più fiero 😉

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