Impulsi o desideri? Per un uso etico delle tecniche di neuromarketing
Il neuromarketing si inserisce decisamente in una visione improntata a quello che è stato definito determinismo tecnologico, ovvero all’idea che il comportamento umano sia fortemente influenzato dalla tecnologia, arrivando fino a erodere e quasi annullare la dimensione della libertà dell’individuo.
È ormai chiaro come gli strumenti tecnologici non si inseriscano in modo neutrale nella nostra vita, ma al contrario, arrivino a plasmare in profondità il modo in cui vediamo il mondo e agiamo all’interno di esso. Come spiegava Neil Postman:
Ogni mezzo rende possibile un modo particolare di discorso fornendo nuovi orientamenti al pensiero, all’espressione, alla sensibilità.
Già Marshall McLuhan, con la celebre espressione “Il medium è il messaggio” aveva sintetizzato la natura non neutrale dei media, invitando i primi studiosi a concentrarsi non tanto sul contenuto veicolato dai mezzi di comunicazione, quanto sui mezzi stessi e sulle profonde trasformazioni che alla lunga questi avrebbero causato in ogni ambito della vita umana. Più di recente la psicologa Patricia Greenfield spiegava:
Ogni mezzo ha i suoi punti di forza e di debolezza; ogni mezzo promuove lo sviluppo di alcune capacità cognitive a scapito di altre.
Gli studi sul complesso fenomeno dalla dipendenza tecnologica, si veda, per esempio, Adam Alter, hanno evidenziato come le logiche di funzionamento dei servizi più utilizzati siano guidate da un intento ben preciso, quello di catturare e mantenere l’attenzione degli utenti. Nulla è casuale sullo schermo di uno smartphone, ogni minimo dettaglio è orientato in questa direzione.
Pensiamo, per esempio, al colore rosso utilizzato per visualizzare le notifiche nei servizi di social media e nell’e-mail: si tratta di un colore normalmente associato a situazioni di emergenza, che richiedono un intervento immediato. Si tende quindi a reagire nello stesso modo, aprendo ogni notifica nel momento in cui arriva, ben sapendo che nella stragrande maggioranza dei casi è relativa a qualcosa d’irrilevante.
In generale i servizi sono progettati in modo da promuovere comportamenti sempre più impulsivi da parte degli utenti, limitando l’appello alla razionalità e dunque alla libera decisione. La nostra relazione con gli schermi e con le tecnologie è sempre meno oggetto di una riflessione razionale e fa sempre di più appello diretto alla nostra emotività e ai nostri istinti.
L’obiettivo è prevedere in modo sempre più preciso e arrivare anche in qualche misura a determinare i nostri comportamenti: il fatto che cliccheremo o meno su un certo link, apriremo un’immagine o un video, leggeremo o no un certo post. Per essere sicuri di ottenere questo obiettivo può essere estremamente utile una tecnica, come il neuromarketing, che consente di individuare ciò che vogliamo ancora prima che arrivi a un livello di coscienza, quando è un impasto di pura istintualità, e come tale ingovernabile, perentorio. Ma anche relativamente facile da soddisfare, secondo un infallibile schema stimolo-risposta. Le tecniche di neurobranding non sono dunque altro che l’evoluzione estrema di una logica già all’opera in buona parte dei servizi online che usiamo quotidianamente. È in atto una vera e propria razzia della nostra attenzione, e il modo più sicuro per catturarla è fare appello alla parte più atavica e istintuale del nostro cervello.
Gli strumenti di analisi basati sulle neuroscienze rendono così il nostro rapporto di dipendenza dalla tecnologia ancora più stretto, ponendo in modo più stringente la questione della rilevanza e del ruolo della sfera di libertà dell’individuo. Grazie a essi è possibile un collegamento diretto con i centri cerebrali, che vengono esaminati con diverse strumentazioni per rilevare le reazioni immediate di un individuo rispetto a certe immagini o parole relative a un determinato prodotto. In questo modo si tende a eliminare anche l’ultima labile barriera che richiedeva una decisione autonoma, quella di aprire o no un certo link, di visualizzare o meno un’immagine o un filmato.
Il filosofo francese Christian Fauré spiega efficacemente quale sia la posta in gioco, in un suo intervento all’incontro Entretiens du Nouveau Monde Industriel nel 2012:
I nostri peggiori incubi si manifestano quando si interfaccia l’incoscienza alla macchina, senza passare attraverso la mediazione della scrittura o del linguaggio. Quando la potenza del digitale è interfacciata e connessa direttamente agli organi fisiologici, senza la mediazione di scrittura e linguaggio.
Il neuromarketing, spiega ancora il filosofo, sembra non gradire il linguaggio. “Ci chiede di tacere. Non vuole ascoltare ciò che gli si può dire o pensare, i dati che producono i nostri sensori e i nostri profili sono sufficienti”. In altri termini, il rischio è quello di rendere gli individui sempre meno capaci di descrivere i propri reali desideri con un linguaggio e di lasciarsi invece sempre più leggere quegli stessi desideri da una strumentazione tecnica esterna. È chiaro che si tratta di una visione distopica, lontana al momento da una effettiva realizzazione. Ma è importante ricordare che in realtà essa sarebbe soltanto l’evoluzione esterna di un processo già in atto all’interno dei media digitali, che utilizzano quanto sanno su di noi per orientare il nostro comportamento futuro. In Youtube il 70% dei video visti sono quelli consigliati dal servizio sulla base delle scelte precedenti fatte dagli stessi utenti. L’intento è tenere agganciato l’utente alla piattaforma, riducendo di fatto in questo modo la sua libera attività di esplorazione e ricerca.
L’aspetto etico da valutare nel considerare il neuromarketing risiede proprio nella dialettica fra ciò che è impulso, non soggetto ad alcuna valutazione razionale, e ciò che invece è desiderio profondo, intenzione che muove la persona verso un obiettivo, che richiede sforzo e determinazione per essere perseguito.
Il nostro desiderio profondo potrebbe essere, per esempio, quello di tenerci in forma e frequentare con regolarità una palestra, l’impulso del momento, la decisione immediata, difficilmente controllabile, potrebbe essere invece quella di entrare in una pasticceria a mangiare dolciumi. Si tratta in entrambi i casi di cose che vogliamo fare, ma evidentemente con un grado di coinvolgimento della ragione e della volontà molto diverso. Di fatto Facebook e gli altri social media funzionano come un grande distributore di dolciumi, ovvero contenuti gradevoli, poco impegnativi, ma anche in grado di suscitare risposte emotive, viscerali, coinvolgenti, ma lontane da qualsiasi valutazione razionale. Lasciarsi andare a questo flusso di contenuti facili rende più difficile seguire quelle che invece possono essere le nostre aspirazioni più profonde, ciò che davvero desideriamo, ma che costa fatica: fosse anche leggere fino in fondo un articolo lungo e impegnativo o un libro.
Già nel 2010 lo scrittore Nicholas Carr si chiedeva se “Internet ci rende stupidi” alludendo all’impatto profondo dell’uso dei media digitali sui nostri meccanismi di pensiero e sul funzionamento del cervello, in continua evoluzione, secondo le scoperte nel campo della neuroplasticità.
Le possibilità offerte dalle tecniche di neuromarketing consentono di conoscere con una certa affidabilità i meccanismi cerebrali che ci portano a volere qualcosa senza nemmeno esserne pienamente coscienti. Questa conoscenza dovrebbe però essere orientata a renderci sempre più consapevoli di quali siano le nostre reali, profonde aspirazioni e a darci i mezzi per realizzarle. Per esempio, si potrebbe ipotizzare un social media che invece di sfruttare le nostre vulnerabilità, come l’essere sensibili all’attenzione degli altri fino a sviluppare una vera e propria dipendenza dai Like, ci proponga strumenti per instaurare relazioni più vere e profonde. Tristan Harris, ex ingegnere di Google e oggi responsabile del Center for Humane Technology, propone alcuni esempi di reti di questo tipo e in generale invita i big della tecnologia ad alzare l’asticella di ciò che si può ottenere dagli individui, una volta che li si conosce fin nei più profondi meccanismi del loro cervello.
I servizi digitali potrebbero aiutarci a usare meglio il nostro tempo, per instaurare buone relazioni, per conoscere meglio noi stessi e gli altri. L’obiettivo è ambizioso, ma è l’unico per cui possa valere la pena mobilitare tecnologie sempre più avanzate.
Questo articolo è un estratto del box di approfondimento di Stefania garassini tratto dal mio libro dal titolo: Neurobranding edito da Hoepli.
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3 anniGrazie Mariano Diotto di aver condiviso l’articolo di Stefania Garassini Ritengo sia una forte e chiara espressione di quell’aspetto etico del neuromarketing di cui si parla: fare educazione per accrescere la consapevolezza di noi stessi e dei nostri meccanismi più profondi affinche sia la prima azione per continuare a scrivere la nostra storia e non solo lasciarci leggere. Non facile, ostico, complicato ma che sto personalmente sperimentando da quando mi hai fatto avvicinare al #neuromarketing Grazie ☺️